Trattato CFE e sicurezza comune, addio

L’analisi del prof. Pascolini parte dalle origini del Trattato e fino all’ultimo atto di ritiro da parte della Russia.

“Se n’è andato un altro pezzo dell’architettura di accordi che hanno reso piena di speranze la breve stagione della fine della guerra fredda. Il Trattato sulle armi convenzionali in Europa era già malandato da un pezzo e la sua fine prevista da mesi, ma l’atto finale lascia comunque l’amaro in bocca.”

 

Il 7 novembre si sono compiuti i tempi previsti per la procedura di ritiro della Russia dal Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (CFET), in vigore dal 9 novembre 1992; al contempo, la Russia si è ritirata da altri due accordi indissolubilmente legati al CFET: l’Accordo di Budapest (3 novembre 1990) e il Flank Document del 31 maggio 1996. Il primo venne concluso per determinare i livelli di armi convenzionali per ciascuno dei partecipanti all’allora Patto di Varsavia, mentre il secondo è servito a risolvere temporaneamente il problema delle restrizioni sulle zone europee periferiche, sorto in relazione alla cessazione dell’Unione Sovietica.

I 22 membri della NATO parte del trattato (Belgio, Bulgaria, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti) e la Svezia hanno immediatamente preso atto della decisione russa e, a loro volta, hanno sospeso completamente l’attuazione del trattato a partire del 7 dicembre.

Il trattato era già estremamente indebolito: Mosca aveva sospeso l’attuazione del CFET il 12 dicembre 2007 e aveva smesso di partecipare alle riunioni settimanali del Gruppo consultivo misto l’11 marzo 2015. I firmatari della NATO avevano sospeso l’attuazione del trattato con la Russia il 22 novembre 2011, ma avevano continuato ad applicarlo con altre sette parti: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Moldavia e Ucraina.

Ora un altro grande trattato di controllo degli armamenti ereditato dal secolo scorso ha seguito la sorte funesta degli altri importanti accordi su questioni chiave del disarmo messi a punto quando sembrava possibile la formazione di una nuova architettura di sicurezza globale ed europea basata sulla cooperazione.

 

Il Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa

Il Trattato CFE fu negoziato e concluso durante gli ultimi anni della Guerra fredda e stabilì limiti globali su categorie chiave di equipaggiamento militare convenzionale in Europa, imponendo la distruzione degli armamenti in eccesso. Il trattato proponeva limiti uguali per i due “gruppi di stati-parte”, la NATO e il Patto di Varsavia.

Il negoziato del CFET venne condotto nella cornice dei fini della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), che portò all’Atto finale di Helsinki del 1975 comprendente disposizioni per il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dei trentacinque firmatari, per la promozione del commercio e per la tutela dei diritti umani. I paralleli negoziati sulla Riduzione reciproca ed equilibrata delle forze (MBFR) invece si protrassero dal 1973 senza successo, fino al blocco da parte sovietica nel 1979 a seguito della decisione della NATO di introdurre in Europa missili a gittata intermedia.


Nel 1986, Mikhail Gorbaciov propose, nel contesto dei negoziati MBFR, di ridurre le forze terrestri e aeree, includendo le armi convenzionali e nucleari “dall’Atlantico agli Urali”. I negoziati per stabilizzare l’equilibrio militare convenzionale in Europa iniziarono nel gennaio 1989 e portarono alla firma del CFET il 19 novembre 1990.

Il preambolo del CFET ne precisa “gli obiettvi: realizzare un equilibrio sicuro e stabile delle forze armate convenzionali in Europa a livelli più bassi di quelli sinora esistenti, eliminare disparità pregiudizievoli per la stabilità e la sicurezza, e impedire, in via altamente prioritaria, la capacità di lanciare attacchi di sorpresa e di avviare azioni offensive su larga scala in Europa”. A tal fine i quantitativi totali degli armamenti convenzionali in Europa vengono limitati a 40.000 carri armati, 40.000 pezzi di artiglieria, 60.000 veicoli corazzati da combattimento, 13.600 aerei da combattimento e 4.000 elicotteri d’attacco, divisi ugualmente fra le due parti.

Oltre alla riduzione delle forze armate e alla loro distribuzione in precise zone territoriali, il trattato impone alle parti:

  1. scambiarsi annualmente informazioni militari, tra cui l’organizzazione e la geolocalizzazione delle forze armate di ciascun paese, dal livello del ministero della difesa fino ai battaglioni separati, nonché le dotazioni di ciascuna unità di carri armati, mezzi corazzati, pezzi di artiglieria, aerei da combattimento ed elicotteri d’attacco;
  2. notificare gli aggiornamenti relativi a dispiegamenti militari significativi in entrata, in uscita o all’interno della zona di applicazione del trattato;
  3. richiedere e accettare ispezioni;
  4. partecipare alle riunioni del Gruppo consultivo misto creato a Vienna.

L’esito di questi negoziati è stato parallelo a cambiamenti epocali, in quanto la Germania era in fase di riunificazione, il Patto di Varsavia si stava sgretolando e la Lituania stava guidando l’uscita delle repubbliche baltiche dall’Unione Sovietica. Per complicare ulteriormente le cose, lo Stato maggiore sovietico cercava di proteggere i suoi investimenti con misure contabili creative e ritiri anticipati, azioni che Gorbaciov sembrava difficilmente in grado di controllare. Il Trattato CFE non fu completato prima di dover essere rivisto per tener conto del crollo dell’Unione Sovietica (26 dicembre 1991).

Una revisione del trattato si rendeva necessaria per adattarlo alla nuova situazione geopolitica, ma, come dichiarò la Russia il 12 dicembre 2007, motivando il suo ritiro, “il Trattato, firmato durante la Guerra fredda, ha smesso da tempo di rispondere alle realtà europee contemporanee e ai nostri interessi di sicurezza. La sua versione adattata non è potuta entrare in vigore da otto anni a causa della posizione dei paesi della NATO che hanno legato la sua ratifica al soddisfacimento da parte della Russia di requisiti inverosimili che non hanno nulla a che fare con il Trattato CFE. Inoltre, hanno intrapreso una serie di passi incompatibili con la lettera e lo spirito del Trattato, minando gli equilibri che ne sono alla base.”

Il bilancio del Trattato CFE è comunque positivo, avendo agevolato una trasformazione non traumatica della situazione politica europea e portato allo smantellamento di 52.000 pezzi di importanti equipaggiamenti militari, consentendo al contempo oltre 4.000 ispezioni.

Inoltre, come ricorda la Russia nel comunicato del 7 novembre, “anche dopo un brusco cambiamento della situazione geopolitica e geostrategica – la fine del Patto di Varsavia e poi dell’Unione Sovietica – quando la Russia è stata costretta a ridurre e riformare le proprie forze armate, e allo stesso tempo a combattere il terrorismo, il Trattato le ha fornito garanzie materiali di sicurezza. Ad esempio, il Trattato CFE ha permesso di rendere il processo di riduzione delle forze non unilaterale, ma reciproco, coinvolgendo i paesi della NATO, in primis la Germania; il potenziale militare totale degli allora membri dell’alleanza è stato in qualche modo limitato e messo sotto controllo. Tutto ciò ha permesso alla Russia di utilizzare più liberamente le forze armate per risolvere il compito prioritario di garantire la sicurezza interna e l’integrità territoriale e di combattere il separatismo e l’estremismo.”

 

La sicurezza comune

Il trattato CFE trova la sua origine nello “sforzo di sostituire la confrontazione militare con un nuovo modello di relazioni di sicurezza fra tutti gli stati basato sulla cooperazione pacifica e in tal modo di contribuire al superamento della divisione dell’Europa”. Il modello cui fa riferimento era stato messo a punto dalla Commissione indipendente sul disarmo e le questioni di sicurezza, presieduta dall’ex primo ministro svedese Olof Palme, che introdusse nel linguaggio del dibattito internazionale il nuovo concetto di “sicurezza comune”, termine scelto come titolo del suo primo rapporto, presentato il 25 aprile 1982.

L’idea di base della sicurezza comune non è complessa. È che nessun paese può ottenere la sicurezza, nel lungo periodo, semplicemente prendendo decisioni unilaterali sul proprio dispiegamento militare. Questo perché la sicurezza dipende anche dalle azioni e dalle reazioni dei potenziali avversari. La sicurezza deve essere trovata in comune con questi avversari: “gli stati non possono più cercare la sicurezza a spese degli altri; essa può essere ottenuta solo attraverso impegni di cooperazione”. Secondo la Commissione, la sicurezza è condivisa, non un gioco “a somma zero”.

La commissione, composta di 17 personalità politiche di alto livello (al momento non al governo) di diversi contesti nazionali e politici (con una cultura prevalentemente social-liberale) dall’Est e dall’Ovest, dal Nord e dal Sud, fu lanciata a Vienna nel settembre 1980 e fino al 1982 si incontrò 12 volte in varie capitali mondiali, con l’obiettivo di “portare nuove idee e pensieri sul tema del disarmo”.

Negli anni successivi alla pubblicazione del rapporto, l’idea di una sicurezza comune e di una “difesa non offensiva” si è diffusa attraverso diversi canali e in forme differenti in diversi paesi dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti, a regioni come l’Asia-Pacifico e all’Unione Sovietica.

A livello nucleare, la sicurezza comune ha prodotto un’alternativa concettuale alla deterrenza nucleare reciproca e alle sue controverse versioni di effettivo impiego bellico “limitato”. A livello convenzionale, la difesa non offensiva offriva una via d’uscita dal dilemma della sicurezza in una serie di situazioni difficili come, appunto, l’Europa centrale, la penisola coreana e la linea di confine russo-cinese-indiana.

La Commissione sottolineava l’importanza delle Nazioni Unite e proponeva un’ampia gamma di misure di disarmo, controllo degli armamenti e rafforzamento della fiducia (CBM), compresa l’adozione di politiche militari meno minacciose. Infine, ha introdotto l’idea emergente secondo cui il problema della sicurezza non dovrebbe limitarsi alle sfide militari alla sicurezza dello stato, ma dovrebbe includere minacce non tradizionali alla popolazione e all’ambiente.

Ora, l’atto formale della cessazione del trattato FCE ci ricorda che si è andato dissolvendo nelle relazioni internazionali lo spirito della sicurezza comune, che non si ritrova più nella politica del tempo presente, in cui, particolarmente le grandi potenze (ma non solo quelle) cercano una propria sicurezza basata su termini di forza, armamenti nucleari ma anche convenzionali avanzati, superando la stessa postura della deterrenza in una rischiosissima corsa alla ricerca di chimeriche posizioni di superiorità militare.

 

Alessandro Pascolini – Università di Padova

16 novembre 2023


Nota: le immagini sono tratte dalla sezione “Guerra Fredda” nel sito www.educolor.itImmagini educative e fotografie